di Stefano Stefanel

Diceva una vecchia canzone del triestino Lelio Luttazzi: “Sarà che più che se diventa veci, più che se diventa veci, più se ga voja de pianger come i fioi”. Ci ha lasciati da poco Palmiro Gaio, uno di quelli che il judo regionale lo hanno costruito dalla parte delle radici. Me lo ricordo, io ragazzino sugli spalti a Lignano Sabbiadoro d’estate e lui a combattere sul tatami contro un altro grande del nostro judo, Renzo Grillo. Arbitrava un terzo capostipite del judo regionale, Emilio Gazzetta. Tutti e tre ci hanno lasciati, ma ci hanno lasciati anche in molti che hanno fatto la storia del judo del Friuli-Venezia Giulia: Cesare Violino, Katsuyoshi Takata, Takara Tsuchiyama, Pierluigi “Piero” Comino, Elio Fratini, Roberto Portolan, Dario Crozzoli, Manlio Grignaschi, Argo Leveghi, Mario Pozzo sono solo alcuni di quei nomi, conosciuti negli anni sessanta, quando il judo del Friuli Venezia Giulia è uscito dal suo momento pionieristico ed è cominciato ad entrare nella sua età dell’oro.

Quando ci lasciano le persone care, quelle che hanno segnato la nostra giovinezza, di solito siamo tristi. Ma una delle grandi fortune dello sport è che ci permette di portare con noi il ricordo dei momenti migliori, quelli delle sfuriate in gara, delle vittorie, delle sconfitte, delle lunghe attese nei palasport, dell’amicizia che nasce dentro i confini di uno sport. Tutti i judoki che ho nominato li ho conosciuti, sono stati parte della mia vita, ho passato con loro molto tempo, ho condivido vittorie e sconfitte, ho litigato, ho fatto pace. Insomma, stanno dentro di me per come sono stati nello sport, anche se conosco poco della loro vita privata. Ma quei ricordi sono i ricordi dei nostri “anni eroici”, di questo sport che è cambiato, di questo sport che è diventato adulto. Diciamo che erano tempi in cui il Seoi Nage era un Seoi Nage e l’Uchi Mata un Uchi Mata. Nient’altro, tutto molto semplice e diretto.

Oggi il nostro judo regionale è molto diviso, ma una delle sue caratteristiche è stata anche nel passato quella delle contrapposizioni. E d’altronde se le persone passano una vita dentro lo stesso ambiente è difficile che tutti vadano d’accordo con tutti e che non nascano contrapposizioni decennali per mortivi gravi e veri o per contingenze temporanee. Però un’origine comune ce l’abbiamo, all’inizio c’erano loro, i pionieri, quelli che ci hanno creduto, quelli che si sono dedicati ad uno sport che viene da lontano in una regione periferica e vivace. E abbiamo anche un’altra origine comune: noi, gli allievi di quei maestri, gli allievi di quegli anni, noi che stiamo salendo la china della vita.

Penso che sia il momento di mettere mano ad una Hall of Fame del judo regionale, così come fanno altri sport, in cui – al di là delle differenze – si riconosca chi, comunque, merita di essere ricordato da tutti per quello che ha fatto nel judo. Una Hall of Fame in cui chi non c’è più sta insieme a chi è ancora sul tatami e viene riconosciuto come uno che sta lasciando il segno: un riconoscimento di un merito indelebile, non una specie di libro del ricordo di chi non c’è più. Non una bacheca del passato, ma un “tributo d’onore”.  Però penso che questa Hall of Fame non la dovrebbero organizzare quelli della mia età, ma quelli molto più giovani, diciamo i trentenni e quarantenni del judo del Friuli-Venezia Giulia di oggi, in modo che tramite il loro studio, la loro ricerca, quello che è rimasto come patrimonio comune, decidano chi comunque fa parte – per sempre – dell’albero nobile del judo del Friuli Venezia Giulia. A cominciare da Palmiro Gaio.