di Stefano Stefanel

Il trionfo dello sport italiano alle Olimpiadi di Tokyo nasce da scelte di politica sportiva tutte rivelatesi corrette e vincenti in riferimento agli obiettivi prefissati. Un trend in tal senso c’era già nel 2020 all’inizio della pandemia, ma le scelte dettate dalle necessità richieste dal tentativo di fermare i contagi e limitare i pericoli hanno forzato la mano in rapporto allo sport agonistico. In questo senso sono state molto significative le dichiarazioni del Presidente del Coni Giovanni Malagò e della Sottosegretaria allo sport Valentina Vezzali che possono essere raccolte in una osservazione molto semplice: “Queste Olimpiadi erano necessarie e irrinunciabili per rispetto agli atleti.” Il trend positivo per lo sport italiano era cominciato con la vittoria ai campionati Europei di calcio ed è poi continuata con successi a raffica nei vari sport, ultimo quello delle “Farfalle” a Tokyo. Anche nel judo tutto è andato per il verso giusto, l’Olimpiade è andata bene e le manifestazioni giovanili post olimpiade hanno portato molte medaglie.

La pandemia ha tracciato in maniera molto chiara il profilo di atleta da “rispettare”: colui che si deve allenare in funzione di un appuntamento sportivo ufficiale di alto livello. Tutti gli sforzi economici e organizzativi del Governo, del Coni e delle Federazioni si sono concentrati lì e, grosso modo, l’identikit di questo atleta da rispettare può essere racchiuso in due categorie: l’atleta professionista e l’atleta inserito nei gruppi sportivi militari (agganciati ad alcune grandi società sportive di numero molto limitato e con mezzi non alla portata di tutti). Era possibile un’altra scelta, che tutelasse l’agonismo di base? Visto l’obiettivo, raggiunto in pieno, direi proprio di no. La scelta è stata netta: tutti i soldi disponibili e tutta l’organizzazione delle federazioni è andata a supporto degli atleti di vertice, di quelli che avevano i numeri per puntare alle Olimpiadi. Anche perché, per un atleta di vertice, il numero delle gare in tempo di pandemia è stato più o meno uguale a quello dei tempi normali. Personalmente ritengo che ogni altra scelta non sarebbe stata gestibile, mentre il mono-obiettivo (il miglior risultato possibile alle Olimpiadi e il mantenimento attivo dello sport professionistico) sia stato raggiunto soprattutto perché alle Federazioni è stato dato mandato di occuparsi a tempo pieno di pochissimi atleti, mentre nelle società professioniste è stato tutto demandato alla logica di mercato, che comunque ha determinato molte meno chiusure traumatiche di quello che ci si sarebbe potuto logicamente attendere.

Questa scelta netta ha però mostrato in maniera inequivocabile una tendenza già in atto prima della pandemia e che racchiuderei in questa domanda: “Se non punti alle Olimpiadi o non hai i numeri per cercare di raggiungerle perché fai dell’agonismo?”. Per il sistema messo in atto in preparazione delle Olimpiadi per raggiungere grandi risultati non servono grandi numeri: il Kosovo nel judo e San Marino nel tiro hanno dimostrato che con pochissimi tesserati si possono fare grandi risultati, basta ottimizzare le risorse e concentrarle in un’unica direzione. Lo schema olimpico può essere tratteggiato in questo modo: serve molta attività giovanile fino ai 14-15 anni, poi chi ha i numeri continua (professionismo o gruppi sportivi militari o società di raccolta atleti di alto livello che comunque puntano all’arruolamento) e chi non ha i numeri per puntare all’Olimpiade può transitare nel mondo dell’amatorialità, che è già molto vasto, ma non richiede grandi risorse “federali” per essere supportato. Le piste di sci sono un grande esempio di questo: sciano insieme sia chi ha dei numeri anche agonistici ma è fuori dal giro, sia chi scende a spazzaneve, stesse piste, stessi costi, stessi orari. Ma ci sono anche gli esempi delle piscine dove si “affittano” le corsie, le moltissime corse podistiche dove convivono atleti con ottimi tempi e coloro che fanno tutta la corsa passeggiando (tipo maratona di New York), le maratone ciclistiche, i frequentatissimi stage di judo e karate dove convivono campioni olimpici e principianti dentro una struttura democratica di sport in cui colui che non punta in alto si allena col campione e allena il campione allenando se stesso in un clima cooperativo.

Le risorse sono molto limitate per tutti e i club non possono essere come il Barcellona calcio che ha accumulato centinaia di milioni di debiti, ma neppure come le società che costruiscono squadre molto forti raccogliendo giovani atleti da club che non riescono a stare al passo con le ambizioni dei propri atleti. Una strada tracciata, insomma, dove diventa sempre più difficile investire soldi e organizzazione per atleti di valore medio o basso che, pur continuando a gareggiare, non hanno alcuna possibilità, neppure remota, di poter tentare la carta olimpica.  D’altronde mi sembrerebbe puerile e irreale discutere una scelta che ha portato a Tokyo la delegazione più ampia dello sport italiano e che ha raggiunto il risultato migliore mai raggiunto dallo sport italiano.

Dentro questo schema sembra diventato antistorico il tentativo di sviluppare un agonismo ben organizzato e strutturato anche per atleti dal 15 ai 35/40 anni, molto costoso e che porta a risultati inutilizzabili in prospettiva olimpica. Questo – nella logica di Tokyo 2020 – diventa un semplice spreco di risorse. Quel tipo di agonismo può essere deviato verso lo sport amatoriale e sociale, cioè verso quelle aggregazioni sportive che producono risorse senza consumarle (una gara sportiva costa molto in termini di organizzazione, uno stage o una maratona ciclistica o podistica o il Dolomiti Superski producono risorse cospicue, senza bruciare “soldi federali”).

A complicare il problema si è sviluppata una “sindrome di Stoccolma” in molti sport, dove le società piccole, ma con velleità agonistiche, si mettono nelle mani di quelle maggiori e da queste vengono praticamente demolite. Questa sorta di “suicidio assistito” dell’agonismo non pare sconvolgere nessuno, anzi molte società con gioia concorrono alla propria auto-distruzione (su 100 atleti che vorrebbero entrare nei gruppi sportivi ce la fa uno, su 1000 che vogliono diventare professionisti ce la fa 1). Se l’attività giovanile diventa un grande “talent” in funzione dei militari e del professionismo, la ragione sociale di moltissimi club crolla o va in grave crisi. Ma la diminuzione dei club privati, magari spostando lo sport anche agonistico nelle scuole, potrebbe rendere più semplice la gestione del sistema sportivo italiano delimitando il campo dell’attività delle Federazioni e degli Enti di promozione sportiva e facendoli diventare agenzie di supporto alla preparazione olimpica.

Ammetto che lo scenario che dipingo è forse un po’ troppo catastrofico, ma la tendenza che vedo in giro non mi fa vedere molte altre prospettive. Anche perché i costi dell’agonismo erano già in vertiginoso aumento prima dell’inizio della pandemia con voci come quelle relative alla tutela sanitaria in gara, agli ufficiali di gara e alle norme organizzative ormai oltre la gestibilità ordinaria. Personalmente ritengo che la “cacciata” dell’agonismo di livello medio o basso nell’amatorialità sia un colpo quasi mortale alle società sportive dilettantistiche, che hanno bisogno di obiettivi certi e raggiungibili. La strada diversa da quella che vede lo sport come bacino d’utenza per i gruppi sportivi militari o il professionismo passa, credo, da una ridefinizione dell’organizzazione sportiva in cui dello sport “non olimpico” si occupino seriamente le strutture locali di Coni, Federazioni, Enti di promozione sportiva. Dovrebbe già essere così, se questi enti intermedi non fossero occupati a declinare in forma costosa e senza alcun equilibrio economico le decisioni delle Federazioni centrali. Tutta l’attività ufficiale locale non si auto finanzia e viene finanziata a deficit dalla Federazione di riferimento. Perciò il resto per i Comitati regionali e provinciali diventa opzionale e secondario, a cominciare dalle rappresentative regionali, che non sono quasi mai un punto di partenza verso il vertice, ma solo il modo di andare ogni tanto a fare una gara intervenendo sui costi. Una cosa pare però interessare molto i livelli gestionali intermedi: la lotta elettorale per il posto di comando, da cui iniziare una vendetta, leggera o feroce a seconda delle situazioni, verso nemici interni. Altri interessi non ce ne sono, meno che meno quelli di garantire l’agonismo alla fascia non olimpica, che spesso costituisce solo un peso da smaltire tra la premiazione di un campione e l’altra.

L’agonismo non si può fare da soli e le realtà agonistiche hanno bisogno di riscontri locali, non solo nazionali, anche perché questi ultimi sono diventati costosi e inutilmente complessi, perché danno esiti che allo sport di vero vertice non interessano. Campionati italiani di serie A e B negli sport individuali non professionistici servono a poco, visto che dell’esito di quei campionati nessuno se ne fa nulla, mentre servirebbe un reticolo locale forte, strutturato e supportato. Ma a chi interessa? Alle società vittime della “sindrome di Stoccolma” no di certo, alle grosse società che fanno da bacino di raccolta nemmeno perché gli obiettivi (anche delle famiglie che pagano l’attività dei figli) sono altri, men che meno ai gruppi sportivi militari che devono ottimizzare le risorse solo per l’alto livello, tenendo i molti atleti arruolati che sono dello stesso valore dei “civili” nel limbo dell’allenamento continuo senza obiettivo. Al di là del pessimismo le società che ancora credono nell’agonismo e che non sono in grado di puntare alle Olimpiadi devono cominciare a ragionare in termini locali molto forti, costringendo i corpi gestionali intermedi a puntare sui progetti agonistici e non solo sulle campagne elettorali.

In chiusura una piccola notazione che riguarda lo spartiacque netto tra le Olimpiadi e il resto nello sport legato al mondo militare. Pochi giorni dopo la chiusura dei Campionati Mondiali di sci di Cortina, dove Luca De Aliprandini ha conquistato il secondo posto in slalom gigante, su alcuni giornali è apparsa una pagina pubblicitaria intera sponsorizzata da una celebre pasta italiana con il volto di Hannes Zingerle dei Carabinieri, Campione Italiano di Slalom Gigante. Il fatto ha attratto la mia attenzione perché la prima cosa che ho letto è stato “Slalom Gigante”, ma guardando la faccia dell’atleta non ho riconosciuto quella di Luca De Aliprandini, come mi aspettavo, ma quella di un atleta che non avevo mai visto prima. Certamente se una pagina di quotidiano a pagamento sponsorizza la vittoria di un titolo italiano e non il secondo posto ai Campionati del Mondo vuol dire che tutto ciò che non è Olimpiade sta in una sorta di limbo incerto senza alcun ordine gerarchico. E questo mi conferma sempre di più nelle mie idee.