M.o Stefano Stefanel

Il judo è diventato uno “sport dello shido”. Credo sia l’unico sport dove la vittoria per squalifica dell’avversario per raggiunto numero di penalità sia legata ad azioni tecniche ordinarie e non alla straordinarietà di azioni antisportive o pericolose. Lo shido viene assegnato spesso dall’arbitro e, altrettanto spesso, dal care system: ormai tantissimi incontri vengono decisi da fuori e non da dentro. Sono ostile ai richiami al judo tradizionale, al bel judo di una volta, allo spirito tradito dei kata, ai grandi interpreti europei ed italiani del pensiero giapponese. Ho un’età, però, che mi garantisce di aver visto in azione tutti coloro che insegnano judo in Italia e molte cose che ho visto non mi piacevano cinquant’anni fa come non mi piacciono oggi. Ma il problema non è quello che piace a me, ma quello di saper lavorare dentro uno sport che cambia ed evolve. Ogni tecnico insegna ai suoi allievi quello che ritiene di insegnare e allena come ritiene di allenare o come riesce a farlo. Nessuno è meglio degli altri, tutti facciamo judo e tutti siamo al tempo stesso umili o sbruffoni, pronti ad imparare e ancor più pronti ad insegnare.

Il problema della scelta, però, non è di poco conto: quando durante una gara un atleta prepara una tecnica, cerca il tempo o sviluppa azioni di squilibrio in genere viene penalizzato con un mulinello, mentre chi si tuffa per primo viene considerato attaccante. Da questo punto di vista molto è cambiato rispetto al passato. In ogni caso sulle passività, sui falsi attacchi, sulle uscite, sulle ostruzioni, sulle prese scorrette l’arbitro decide in base alle sue competenze tecniche e tattiche e la sua decisione non deve legarsi per forza di cose al judo, ma piuttosto alla sua idea del judo, all’idea di judo del commissario di gara, all’idea di judo degli altri arbitri, all’idea di judo di chi urla di più e meglio. E a regolamenti modificati molto spesso con ampi margini di interpretazione. Poiché si conosce tutto questo, ma si vive dentro un sistema sportivo evoluto che va avanti anche senza di noi, è bene avere chiare in mente le scelte che si fanno.

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I momenti di una tecnica di judo sono il Kuzushi (che trasduciamo con il termine squilibrio, ma che indica la complessa serie di fattori che determinano l’indebolimento della posizione statica e difensiva di Uke), lo Tsukuri (che traduciamo come caricamento, ma che è il momento in cui si passa da un equilibrio che avvantaggia Tori ad una situazione in cui tutto si evolve nell’ambito di una tecnica perché dopo il Kuzushi con lo Tsukuri si collega il gesto tecnico al corpo dell’avversario in movimento) e il Gake (la proiezione di Uke da parte di Tori). Il momento di massima incertezza (quello in cui Tori può improvvisamente trasformarsi in Uke per l’azione di Gaeshi-Contraccolpo) è lo Tsukuri. Infatti, nel Go-Kyo codificato dal Kodokan ci sono 13 contraccolpi e 3 tecniche che si applicano direttamente sulla tecnica dell’avversario (su 67 Tachi-waza codificati).

Una parte consistente del judo di oggi è impostato su una forma molto potente di Kuzushi, costruita ed allenata per squilibrare l’avversario senza però entrare nello Tsukuri, cioè nella zona di pericolo, che può trasformare Tori in Uke. L’azione è molto potente, Uke viene oggettivamente squilibrato, ma non c’è nessuna possibilità che si arrivi ad un Gake, perché l’azione è pensata per acquisire vantaggio in funzione dell’ammonizione per passività dell’avversario. Quindi è una tecnica allenata per produrre shido, non per produrre un waza-ari o un ippon. Per fare questo è necessario avere una grande condizione fisica, una notevole forza e agire su un ferreo autocontrollo per produrre una tecnica monca, ma in grado di essere considerata attacco. E bisogna allenarsi moltissimo, per dare naturalità ad un movimento che viene interrotto improvvisamente in forma on naturale. In alcuni casi – a livello internazionale – avviene che in una gara una terna arbitrale e una commissione sanzionino come falsi attacchi questo tipo di azioni, che altrove vengono considerate veri attacchi. Ma avviene poche volte e quando avviene l’atleta perde recriminando. Quello dello shido è un judo dispendioso, molto fisico, che produce un grande stress fisico e molti incidenti. Anche perché è un tipo di judo che impone molta preparazione fisica coi pesi e quindi la costruzione di un fisico spesso esposto ai traumi, in cui la forza prevale sulla velocità e sul gesto tecnico.

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Se si ha a disposizione atleti in grado di allenarsi per 20-30 ore alla settimana e in forma quotidiana si può anche tentare di lavorare contemporaneamente sul judo e sugli shido, altrimenti bisogna fare una scelta. L’atleta che lavora sugli shido vuole vincere e subito: impossibile insegnare a un atleta tattica e poi vederlo perdere, è un controsenso. Perciò il tempo è poco e lo spazio di azione ancora meno. Allenamento e vittoria. Oppure abbandono. La strada della tecnica e cioè del judo puro e semplice è molto più lunga e va ad incrociarsi con quella degli shido e dunque spesso non regge.

Eppure, bisogna fare una scelta, altrimenti è il caos. Per me non ci sono alternative: continuo ad insegnare judo, perché il mio bacino di utenza è limitato, perché la strada del professionismo è piena di professionisti mancati, perché una piccola società non regge lo stress degli infortuni a catena e di allenamenti quotidiani. E anche perché, in fondo, sono un maestro di judo.