di Stefano Stefanel

Il judo, come tutti gli sport, ha bisogno di comunicazione e giornalismo. E ne avrebbe ancora
di più oggi visto che questa pandemia sta minando la struttura portante dei praticanti, ridotti oggi a
poche unità per club e con l’incognita di aver reso non contabilizzabili i numeri delle presenze in
palestra alla ripartenza.
Lo sport per sua natura, però, ha bisogno del giornalismo “indipendente” (anche se spesso è
solo fintamente indipendente). Se voi prendete un qualunque giornale a tiratura locale o nazionale
trovate le “pagelle” di atleti, allenatori e arbitri del calcio. Questa è la naturale base del giornalismo
indipendente, che critica chi vuole e come vuole, dentro “teatrini” spesso di parte, ma comunque
con la possibilità del lettore di comparare le varie opinioni. Questa è anche la forza degli sport che
hanno una vera comunicazione e che vedono giornalisti “indipendenti” dare giudizi in libertà,
alimentando così interesse, passione, partecipazione, notizie dentro una dimensione di parte, ma
comunque vivace.
Nel judo non è così: c’è solo la “voce federale” o comunque un giornalismo che può lodare,
giustificare, comprendere, mai giudicare o valutare. E soprattutto mai “criticare”, anche perché chi
fa questo giornalismo è un “addetto ai lavori” che comunque ha interessi specifici nel judo. Non si è
mai letta una critica ad un allenatore, ad una preparazione, ad un atleta. Tutto questo disincentiva
l’interesse e dunque produce, al massimo, una polemica sui dirigenti e tra i dirigenti, che al mondo
degli sportivi e del potenziale pubblico interessa poco o nulla. E d’altronde “attaccare” o “incalzare” i
dirigenti sportivi avendo solo parole di stima o di giustificazione per gli atleti e i tecnici rende quel
giornalismo assolutamente illeggibile. E, infatti, non viene letto. D’altronde se su giornali, social, siti,
ecc. si attivasse un “giornalismo indipendente” su atleti, tecnici, prestazioni in situazioni analoghe a
quelle del calcio o di altri sport di vertice, si otterrebbe semplicemente una babele di scontri e liti,
utili a nessuno. Da questo punto di vista il giornalismo judoistico “per veline” e per comunicati
stampa ufficiali è quasi una necessità. Anche se si è visto che nel judo non serve a molto fare ingenti
investimenti su giornalisti e giornali per aumentare l’interesse per il nostro sport, che rimane molto
basso e cresce solo in occasione delle medaglie olimpiche.
E’ chiaro però che un giornalismo judoistico che vede nella parte dei “giornalisti” tecnici di
club o addirittura dirigenti sportivi impegnati contemporaneamente nella gestione e nella
pubblicistica produce solo un’idea ridondante di ambiente che cerca di difendere se stesso. Si può
essere più o meno soddisfatti della cosa, ma la pochezza comunicativa dell’operazione è sotto gli
occhi di tutti. D’altronde nel judo è molto difficile appassionarsi a qualche campione internazionale,
anche perché i migliori sono asiatici distanti e non in grado di canalizzare il sentimento popolare e il
judo sta diventando uno sport monopolizzato da molti atleti provenienti dalle repubbliche nate dal
disfacimento dell’URSS, dove l’interesse per lo spettacolo è nullo e tutto è impostato su forza fisica e
tattica. Il judo è spesso veramente inguardabile con incontri sempre uguali dove spesso prevalgono
le sanzioni. E, purtroppo per noi, in nessun altro sport gli incontri vinti per sanzioni dell’avversario
sono di numero così alto. Sci, tennis, nuoto, atletica si basano su pochi parametri visibili e spesso
“solo” televisivi (nello sci se non ci fosse il tempo sovra impresso nessuno capirebbe chi sta
vincendo) e tutti i tentativi di rendere più spettacolare il judo si sono infranti sui maestri delle
tattiche a cui la spettacolarità del judo non interessa nulla, anzi è un elemento che frena forza e
tattica e quindi non serve.
Visto che è quasi impossibile avere un giornalismo “indipendente”, anche perché chiunque
faccia giornalismo nel judo è un tecnico o un dirigente o un atleta, quindi uno con interessi nel
settore, e visto che per gli atleti di casa ci si entusiasma solamente quando vincono, mentre nessuno
sport vive l’esposizione “mediatica” con campioni che vengono dal Giappone, dalla Corea,
dall’Uzbekistan, dal Kazakistan o da simili scuole sportive, sarebbe necessario ripensare tutta la
comunicazione e investire sulle “veline” sportive il meno possibile. E’ un po’ il problema del ciclismo,

dove le interviste ai ciclisti sono pressoché tutte uguali con forti autoincensamenti e giustificazioni
per le debacle: tutte le dichiarazioni sono simili, del tipo “mi sentivo bene, speravo meglio, ce l’ho
messa tutta, avevo buone sensazioni, sono un po’ deluso, sono molto soddisfatto, è solo il punto di
partenza, pensiamo al futuro, ecc.”, in un grande deja vu di fatto illeggibile. Al di là di questo tutto
sparisce in un attimo come le classifiche, che nessuno ricorda mai neppure a poca distanza a meno
che non si tratti di una vittoria alle olimpiadi. E comunque se chiedessimo a 100 judoka i nomi dei 14
campioni del mondo in carica credo si arriverebbe a poche risposte corrette, mentre i nomi di 11
calciatori di una squadra alla fine si ricordano.
Io credo che si debba puntare ad un giornalismo di nicchia, molto locale, molto social e
molto libero. Senza veline e senza cattiverie, ma che stimoli l’attenzione e il dibattito e che permetta
anche di sottolineare i lati negativi o deboli. Per far questo ci vuole costanza e capacità di stare sugli
avvenimenti, ma – soprattutto – ci vorrebbe da parte di tutti un’idea più “libera” di giornalismo
judoistico. Nel judo le gerarchie sono labili e a livello locale la comunicazione è più semplice d’estate
quando il calcio è fermo, piuttosto che d’inverno dove il calcio satura gli spazi. Ma d’estate grandi
avvenimenti sportivi locali non ci sono. La comunicazione sul judo non dovrebbe essere gerarchica,
ma solo affidarsi agli spazi disponibili, che vengono coperti da quello che c’è. Un po’ come avviene
nel calcio: se c’è la serie A ci si occupa della serie A, ma se la Serie A è ferma lo spazio passa alla serie
B, al calcio internazionale, alla Lega Pro, fino ai campionati minori. Così dovremmo fare anche nel
judo: moltiplicare su giornali, social, siti le informazioni su atleti, allenamenti, gare (quando ci
saranno), iniziative, premiazioni, senza una reale gerarchia e senza azioni di controllo, ma solo come
elemento diffuso e di massa di sviluppo di interesse per il nostro sport. Pubblicare sui social una
bella tecnica di un giapponese o di un azero o anche di un campione italiano può essere interessante
e anche utile, ma non produce alcun interesse. Viceversa pubblicare una bella azione di un ragazzo
giovane, una bella esecuzione di un atleta locale, una bella prestazione documentata della “squadra
di casa” può alimentare un interesse locale, ma capace di diffondersi anche a chi non fa judo e
magari potrebbe provare a farlo. Per fare questo nelle gare e anche negli allenamenti bisognerebbe
però diventare “giornalisti” e sapere cosa fotografare e cosa riprendere per evitare di mettere sui
social o di dare notizia di attività con testimonianze fotografiche o con riprese avvilenti. Credo che
una comunicazione per immagini di uno sport vivo e molto locale avrebbe una ricaduta e un
interesse migliore che veline judoistiche tutte uguali, con elogi e auto elogi su tutto, richiami ad
atleti sconosciuti, campioni “senza volto”, a pratiche sportive basate tutte sulla tattica.